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La strada, il ghetto, queste sono le fonti di ispirazione di molti artisti. Il nero del ghetto deve confrontarsi con la sua comunità e farsi rispettare, e poi affrontare il mondo dei bianchi, per il quale è invisibile. Per reazione a questa invisibilità – sociale, economica, culturale – si crea quindi un’identità propria, la cultura hip-hop, a cui appartiene la musica rap. Il rap parla della vita quotidiana degli abitanti del ghetto, e dà fastidio. Getta luce sulle zone d’ombra di cui si preferirebbe non sapere niente, su persone che si vorrebbero invisibili e mute. Il rap è una telecamera che mostra la realtà com’è, nuda e cruda. Racconta il ghetto in prima persona, dice che cosa succede in città, in famiglia, nella testa. A differenza dello spirito rock – la contestazione del mondo degli adulti –il rap è una dichiarazione di esistenza, una guerra di affermazione rispetto ai coetanei più ricchi, più bianchi, più avvantaggiati nella vita. Tutti gli elementi sono importanti: la break-dance, lo smurf (il berretto che prende il nome dagli Smurfs, i Puffi in inglese), il DJ che crea suoni mescolando dischi già esistenti, l’MC (master of ceremonies) che prende il microfono, i graffiti, le battles (battaglie di parole), il beatbox fatto con la bocca, lo slam (una specie di poesia orale improvvisata), il cappuccio della felpa, i pantaloni larghissimi, le scarpe da basket alte, e poi una lingua, con suoni ed espressioni nuove, una camminata particolare… La musica rap è giudicata aggressiva e violenta. Ma l’abbiamo davvero ascoltata? Coloro che subiscono le ingiustizie sono quelli che meglio possono spiegare le cose. Dobbiamo ascoltarli.
La strada, il ghetto, queste sono le fonti di ispirazione di molti artisti. Il nero del ghetto deve confrontarsi con la sua comunità e farsi rispettare, e poi affrontare il mondo dei bianchi, per il quale è invisibile. Per reazione a questa invisibilità – sociale, economica, culturale – si crea quindi un’identità propria, la cultura hip-hop, a cui appartiene la musica rap. Il rap parla della vita quotidiana degli abitanti del ghetto, e dà fastidio. Getta luce sulle zone d’ombra di cui si preferirebbe non sapere niente, su persone che si vorrebbero invisibili e mute. Il rap è una telecamera che mostra la realtà com’è, nuda e cruda. Racconta il ghetto in prima persona, dice che cosa succede in città, in famiglia, nella testa. A differenza dello spirito rock – la contestazione del mondo degli adulti –il rap è una dichiarazione di esistenza, una guerra di affermazione rispetto ai coetanei più ricchi, più bianchi, più avvantaggiati nella vita. Tutti gli elementi sono importanti: la break-dance, lo smurf (il berretto che prende il nome dagli Smurfs, i Puffi in inglese), il DJ che crea suoni mescolando dischi già esistenti, l’MC (master of ceremonies) che prende il microfono, i graffiti, le battles (battaglie di parole), il beatbox fatto con la bocca, lo slam (una specie di poesia orale improvvisata), il cappuccio della felpa, i pantaloni larghissimi, le scarpe da basket alte, e poi una lingua, con suoni ed espressioni nuove, una camminata particolare… La musica rap è giudicata aggressiva e violenta. Ma l’abbiamo davvero ascoltata? Coloro che subiscono le ingiustizie sono quelli che meglio possono spiegare le cose. Dobbiamo ascoltarli.